Il cosmo di Otobong Nkanga, a Nizza

« Siamo a Nizza, volevo fare qualcosa in relazione al mare, ché rimanda al sogno e all’altrove, ma anche alla violenza e alle crisi ecologiche ed economiche », ci racconta Otobong Nkanga, spiegandoci la sua personale a Villa Arson.

Manifest of Strains, 2018, Installation Collection Wim van Dongen. Sullo sfondo: Double Plot, 2018, Textile tissé, photographie, Collection Wim van Dongen. Ph: Jean-Christophe Lett

Guardare il mare e sognare suggerisce “When Look Across the Sea, Do You Dream?” il titolo della prima monografia francese di Otobong Nkanga (1974, Kano in Nigeria), che presenta una cinquantina di creazioni nel suggestivo spazio del Centre National d’Art Contemporain di Villa Arson situato sulle colline nizzarde, fino al 19 settembre. Perché il mare? “Siamo a Nizza, volevo fare qualcosa in relazione al mare, ché rimanda al sogno e all’altrove, ma anche alla violenza e alle crisi ecologiche ed economiche”. Introduce l’artista durante il vernissage. Sono presenti video, fotografie, poemi, arazzi, acrilici, disegni, collage e installazioni che si avvalgono di ricerche geoeconomiche e storico-sociali per definire i territori e i valori connessi alle risorse naturali o per ricostruire una memoria storica partendo dall’uso di oggetti semplici e toccare poi grandi questioni come l’ambiente e postcolonialismo.

n a Place Yet Unknown, 2017, Textile tissé, récipient en cuivre, encre et colorants, Courtesy: Otobong Nkanga
in fondo: Awaiting Pleasure But It Cut, Plaque céramique, Courtesy Otobong Nkanga & Galerie In Situ
– fabienne leclerc, Grand Paris, Collection privée: J-M Decrop, Hong Kong. Ph. Jean-Christophe Lett

La mostra inizia con Emptied Remains (2010), una foto a colori di una costruzione eterogenea scattata a Curaçao che copre un’intera parete, per finire con stralci di pensieri, tra poesia e politica, nell’installazione sonora multicanale Wetin You Go Do? Oya Na (2020, 20’28”), che in nigeriano Pidgin significa ‘cosa hai intenzione di fare’. “La foto dell’edificio di Curaçao l’ho scattata per caso mentre camminavo lungo quest’isola dei Caraibi a 24 chilometri dal Venezuela. Mi ha colpito la sua architettura, l’aspetto funzionale. Gli elementi che la compongono sono stati assemblati nel tempo in base alle necessità, l’interno fa pensare a una sorta di labirinto mentre l’esterno rimanda all’economia del luogo”, sottolinea Otobong Nkanga. Un percorso espositivo non cronologico che presenta opere emblematiche, per lo più organiche che mutano nel tempo e nello spazio per tessere relazioni con il pubblico e l’ambiente circostante. “Ogni opera porta in sé una storia, alcune parlano di violenza altre di pacificazione. Possono cambiare qualcosa? Sì, ma chi è che decide quando le cose possono cambiare. Forse non subito. Oggi un bambino guarda un’opera, prende coscienza del messaggio e da grande magari lo concretizza in azioni pratiche”, racconta l’artista.

Steel to Rust – Rust to Debris – Debris to Dust , 2016 Vitrine, impression numérique sur coton, tige en acier inoxydable, feutre, plaques en acier, teinture, déchets d’acier, eau, argile, oxyde de fer, Courtesy: Otobong Nkanga; sullo sfondo: The Encounter That Took a Part of Me , 2017 – 2021 Dessin mural Courtesy: Otobong Nkang. Ph. Jean-Christophe Lett

Otobong Nkanga ricorre a un’ampia gamma di materiali per le sue creazioni, come la mica, un minerale che ha ispirato diversi lavori; lastre di alluminio su cui vengono stampate fotografie, vedi Post I e II (2019); poesie scritte a inchiostro su tessuto In a Place Yet Unknown (2017); torrette di saponi in Carved to Flow (2017), per una riflessione sulla economia circolare; oggetti raccolti durante una performance per la scultura Constellation to Appease (2019); noci di cola in Contained Measures of Kolanut Tales per narrare la storia di un albero sacro sviluppatosi nell’Africa occitendale. Le sue opere sono belle da vedere e intrigano per la molteplicità di letture e di domande che ispirano, come per il magnifico arazzo di sette metri, Double Plot (2018), sugli effetti nefasti dell’industria di massa sulle comunità africane, opera che qui fa da sfondo Manifest of Strains (installazione, 2018), o le tre foto di Things have Fallen (2004-2005), in cui la bellezza di una natura verdeggiante viene stravolta da vecchi fabbricati decadenti e in disuso. Accenni autobiografici invece in Grey Zone-Shaping Memory (Diptych), dove l’artista cerca di ricostruire la casa familiare incendiata – il cui ricordo resta tutt’oggi offuscato – attraverso una foto in bianco e nero che vede un collage di un’abitazione in miniatura portata sul palmo della sua mano. Continua a leggere su Exibart

Author: livia de leoni

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